giovedì 29 novembre 2012

Sistemi di potere

Si dice che un'associazione malavitosa crea un "sistema" quando impone comportamenti e norme non scritte.
Invece, un sistema democratico si ha quando i comportamenti e le norme sono scritte, soprattutto perché detti comportamenti e regole vengono emanate in nome del popolo.
Una ovvietà quella espressa, si sente la necessità di riaffermarla poiché, proprio in quanto ovvietà, molti la dimenticano o peggio la danno per assodata.
Un sistema malavitoso non ha sottosistemi ma sistemi che si scontrano, un sistema democratico ha molti e variegati sottosistemi.
Chi gestisce il potere deve lasciare ad altri la gestione di sottopoteri spesso condizionanti.
Questi sottosistemi lentamente, quando il potere è debole, si trasformano in caste e, sempre più spesso, sono loro a gestire il vero potere, talvolta anche all'insaputa del potente.
Berlusconi anni fa affermò di avere meno potere di chi dirigeva palazzo Chigi, cosa simile la espresse prima di lui Mussolini.  Eppure, i due, sia pure in epoche diverse, avrebbero potuto chiedere al popolo qualsiasi cosa.
Allora, il popolo, artefice e garante della democrazia, che ruolo ha?
Come dice la Costituzione gli appartiene la sovranità, non assoluta ma esercitata nei limiti della Costituzione stessa.
In quasi tutte le epoche storiche non c'è stata persona più infelice del sovrano, al popolo, in democrazia, è donata quindi la infelicità.   
Dunque, se vogliamo essere sovrani non abbiamo poi granché  da lamentarci.
Chi sono, in una democrazia, i sottosistemi?
Ne troviamo tanti.
I militari sono un sottosistema: io ti difendo dunque mi devi riconoscimenti (leggi decisioni sulle spese militari).
La magistratura è un sottosistema che però è in rotta di collisione con il potere politico.
L'imprenditoria è un sottosistema: do lavoro dunque mi devi rispetto, mi devi far pagare meno tasse e mi devi dare contributi pubblici.
I dirigenti di ogni ente pubblico si sono trasformati in casta: io traduco in atti le tue indicazioni dunque mi devi concedere libertà d'azione.
Se ne potrebbero aggiungere ancora tante.
Il fascismo forse aveva ragione: il corporativismo, in una democrazia, prevale sempre sul sindacalismo.
Infatti, negli ultimi trentanni i sindacati hanno smesso di difendere i lavoratori e si sono trasformati in lega delle corporazioni, ricevendo in cambio prebende di Stato (CAF, finanziamenti ai loro enti formazione, ecc).
Il filosofo britannico Roger Scruton ha affermato che non ha senso concedere diritti agli animali perché non li comprendono.
Quanto affermato da Scruton deve valere solo per gli animali?
Viviamo in un'epoca in cui gli uomini hanno deciso di non pensare, di essere edonisti ed egoisti ed hanno deciso di non difendersi più dalle caste e dai sottosistemi di potere.
In pratica hanno smesso di comprendere i loro diritti, di lottare per riaffermarli, di essere attenti su chi gli vuole sottrarre la libertà di esistere, si sono animalizzati.
Meritano ancora di essere considerati?



domenica 5 febbraio 2012

il sindacato che vorrei

Il movimento sindacale si è sempre differenziato dal corporativismo perché le lotte e le rivendicazioni sindacali venivano fatte considerando gli aspetti generali della società rispetto agli interessi della sola corporazione. Inoltre, il movimento sindacale teneva ben presente che gli interessi tra lavoratore ed imprenditore (che nel pubblico impiego diventa amministratore pro tempore) sono spesso contrastanti.
Le prime organizzazioni sindacali si chiamarono Società del Muto Soccorso e diedero inizio alla storia dei sindacati che si identificò con la storia dei lavoratori.
Operai, contadini, impiegati si  riunivano allo scopo di difendere gli “interessi” delle loro categorie tenendo ben in considerazione l’economia generale dell’intero paese all’interno del contesto storico economico.
Dunque, gli “interessi” non erano mai puramente ed esclusivamente economici, personali o di piccole corporazioni,  bensì si rifacevano al miglioramento collettivo di tutta una categoria o classe sociale.
Quali sono gli “interessi” della categoria dei dipendenti pubblici oggi?
Al primo posto metterei la dignità.
Quali lotte sono scaturite dalla definizione di “fannulloni” fatta da un ministro in carica?
Certo, all’interno dei dipendenti pubblici, a qualsiasi categoria appartengano, ci sono degli autentici fannulloni, cosa è stato proposto  per l’individuazione e l’isolamento dei fannulloni?
È dignitosa la trattenuta di parte di salario accessorio per ogni giorno di malattia?
È una norma in linea con la Costituzione?
Eppure non abbiamo visto grandi levate di scudi, neanche da parte delle organizzazioni dei lavoratori pubblici.   Gli indubbi abusi dell’istituto della malattia non si sanano con ulteriori abusi di legge e soprattutto sparando nel mucchio.
Tanti anni fa, ai tempi di Luciano Lama e, prima ancora, di Giulio Pastore, i dipendenti pubblici ricevevano ogni anno le note di merito dagli alti dirigenti. La pratica era divenuta motivo di ricatto e spesso i dipendenti erano completamente assoggettati e asserviti al volere di chi doveva redigere dette note di qualifica.
Alla fine degli anni sessanta le note di qualifica furono cancellate.
Sono ritornate a fine anni novanta come “valutazione della prestazione”.
Leggere una scheda di valutazione della prestazione è da brividi o da scompisciarsi dalle risate, eppure nessuno ne discute.
Al secondo posto metterei la partecipazione.
Come può il singolo dipendente partecipare attivamente alla programmazione delle attività dell’ufficio?
Non sono mai state né previste, né regolamentate riunioni periodiche tra dirigenti, funzionari e personale per il raggiungimento degli obiettivi degli uffici.
Anzi, gli obiettivi che la stessa Giunta stabilisce per i Coordinatori non vengono resi pubblici, come non si conoscono a cascata gli obiettivi degli altri dirigenti.
La pubblicazione degli obiettivi, che per alcune amministrazioni  sono pubblicati sui siti internet, è discrezionale o deve avvenire per legge?
Perché le organizzazioni sindacali delle amministrazioni che non pubblicano gli obiettivi  non ne richiedono la immediata pubblicazione per consentire la cosciente partecipazione dei dipendenti alla vita lavorativa dell’ente?
L’articolo 27 del dlgs 150/2009, tra l’altro, recita: una quota fino al 30 per cento dei risparmi sui costi di funzionamento derivanti da processi di ristrutturazione, riorganizzazione e innovazione all'interno delle pubbliche amministrazioni e' destinata, in misura fino a due terzi, a premiare, secondo criteri generali definiti dalla contrattazione collettiva integrativa, il personale direttamente e proficuamente coinvolto e per la parte residua ad incrementare le somme disponibili per la contrattazione stessa.
In una pubblica amministrazione che spreca fino all’inverosimile, il citato art. 27 è un articolo con cui si potrebbe fare la rivoluzione, coinvolgendo nel processo di ristrutturazione la massa dei dipendenti, eppure tutto tace, tutto cala solo dall’alto.
Al terzo posto metterei la trasparenza.
Come primo atto promuoverei una sorta di  election day dove tutti gli iscritti sanno che ogni due o tre anni ci si ritrova per eleggere i rappresentanti aziendali di quel sindacato e gli eletti parteciperanno alla elezione per gli RSU.   Non è bello vedere fermento sindacale solo perché a breve ci saranno le elezioni per gli RSU. Sarebbe bello ricevere ogni anno il bilancio su come sono state spese le quote sindacali.
So bene che chi fa sindacato spesso ci rimette tempo e danaro e che ogni centesimo è speso nell’interesse del lavoratore iscritto. A maggior ragione darei al lavoratore la soddisfazione di un bilancio consuntivo annuale.
La cosa più importate è, a mio avviso, chiedere trasparenza all’ente per cui si lavora.  Non è possibile che le leggi sulla trasparenza provengono solo da iniziativa politica e mai su richiesta dei lavoratori. A proposito di trasparenza ringrazio la Giunta Regionale della Campania per l’art. 18 della legge regionale num. 1/2012.  Sarebbe stato bello se la pubblicazione degli atti fosse il frutto delle pressanti richieste dei lavoratori, ma accontentiamoci.
Chiedere, anche veementemente, il rispetto della normativa non deve essere inteso come contestazione a fini politici, anche se negli anni passati abbiamo assistito all’assoluta acquiescenza a fini politici.
Mi piacerebbe un sindacato che non chiamasse “conquiste” i diritti e che ricordasse sempre l’articolo 36 della Legge Fondamentale dello Stato: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Mi soffermerei sul “proporzianata”, cioè essere in proporzione, in rapporto, in relazione, in corrispondenza, in equilibrio con le altre retribuzioni, non slegata, senza proporzione e rapporto.
John Donn, famoso poeta inglese del sedicesimo secolo, in un sermone considerata poesia, espresse un concetto secondo il quale nessun uomo è un'"isola", cioè può considerarsi indipendente dal resto dell'umanità. In una società “civile” nessuna retribuzione dovrebbe essere considerata solo in base a ciò che si fa, si sa fare o si dovrebbe saper fare, ma proporzionata alle retribuzioni del resto dell’umanità.
Il compito di un sindacato dovrebbe essere principalmente questo, chiedere, anzi pretendere, equità salariale in rapporto al salario dei più “fortunati”.
Altrimenti, quando si vivono momenti critici, quando si verificano fatti spiacevoli, nessuno deve dimenticare quanto detto da John Donne:
"E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona anche per te".

martedì 3 gennaio 2012

il potere ed i suoi effetti

Che cosa è il potere?
Potremmo dare mille definizioni e forse saremmo costretti ad aggiungere sempre qualche cosa per dettagliare meglio la risposta.
Per una generica descrizione ricorriamo a Wikipedia:
  • In termini giuridici si potrebbe definire il potere come la capacità, la facoltà ovvero l'autorità di agire, esercitata per fini personali o collettivi.
  • Nelle altre accezioni il potere riguarda sostanzialmente la capacità di influenzare i comportamenti di gruppi umani.
Quindi talvolta è la capacità dell’individuo ad influenzare i comportamenti degli altri, cioè fargli fare  ciò che vuole, altre volte è l’autorità derivante dalla posizione che occupa la persona con il potere ad incidere sull’atteggiamento dei sottoposti.
In pratica, buona parte dell’attività del “potente” è fatta di coercizione sull’attività  del gruppo asservito.
Varie ricerche di psicologia sociale hanno tentato di stabilire gli effetti del potere sia su chi lo esercita che su chi lo deve subire.
All’università di Stanford fu riprodotto un ambiente del tutto simile ad un carcere e furono selezionati degli studenti, volontari, affinché svolgessero alcuni il ruolo di guardie ed altri il ruolo di detenuti. L’assegnazione dei ruoli avvenne casualmente.
L’esperimento fu sospeso dopo appena sei giorni, molto prima del tempo stabilito, per la drammaticità dei risultati.
I prigionieri, individuati solo da un numero, furono costretti ad indossare divise e ad avere una catena alla caviglia.
Le guardie indossavano divise, avevano manganelli ed occhiali riflettenti per evitare di essere guardati negli occhi.  Alle guardie fu concessa ampia discrezionalità nel trattamento dei prigionieri.
L’abbigliamento, le divise, serviva per porre i due gruppi in una condizione di deindividuazione, cioè per far diminuire nell’individuo la consapevolezza di se e  far aumentare la identificazione con le azioni intraprese dal gruppo.
Dunque, la perdita della responsabilità personale riduce la considerazione delle conseguenze delle proprie azioni, indebolendo i controlli basati sul senso di colpa.
L’umore dei prigionieri peggiorò progressivamente, sfiorando in breve la depressione, a nulla servì il tentativo di coalizzarsi.
Le guardie cominciarono ad intimidirli e ad umiliarli spezzando con facilità il legame di solidarietà che si era sviluppato tra i prigionieri.
Ognuno pensava a come salvare se stesso dimenticando che nelle situazioni di sottomissione e disagio l’unione è l’unica strada percorribile.
Dopo appena cinque giorni il comportamento dei prigionieri era docile e passivo, il rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi mentre per contro le guardie prendevano sempre più gusto in un atteggiamento vessatorio e sadico.
Al sesto giorno l’esperimento fu sospeso.

Che cosa succede a chi viene investito del potere?
·         La possibilità di accedere agli strumenti del potere  fa crescere la possibilità di esercitare il potere.
·         Maggiore è il potere usato maggiore è la convinzione da parte di colui che esercita il potere di controllare il comportamento degli altri.
·         Ogni volta che chi esercita il potere ha la sensazione che così facendo ne tragga qualche vantaggio percepirà l’altro in senso svalutativo. Tanto più se quest’ultimo non prova paura o se è incline all’obbedienza. Chi sfida il potere deve essere punito chi lo osserva senza discuterlo è indegno di considerazione.
·         Se il potere di una persona si accresce, aumentando la distanza sociale tra chi ha il potere e chi lo subisce, quest’ultimo sarà ulteriormente svalutato e la possibilità di una qualche relazione tra i due tende a scomparire.
·         La possibilità di esercitare il potere accresce la propria autostima, al limite può sfociare nell’esaltazione in cui si rischia di non usare più alcuna regola morale.

Ebbene, alla luce dei risultati della ricerca effettuata si può tranquillamente affermare che il potere produce effetti di natura comportamentale, condiziona i gruppi ed i gruppi possono condizionare le masse.
Forse sarebbe il caso che uno studio, meno traumatico di quello di Stanford, ma altrettanto approfondito, fosse portato a termine in ogni luogo di lavoro, non solo per verificare gli effetti su chi è investito di qualsiasi potere ma anche per verificare l’acquiescenza indotta in chi è sottoposto al potere altrui.
Uno studio altrettanto rigoroso sarebbe opportuno farlo anche su chi acquisisce potere con il sistema democratico: gli eletti dal popolo.
Questi ultimi, dopo il primo shock ambientale, sembra che anche l’assuefazione al privilegio in un primo momento crea disagio esistenziale, dimenticano di essere “eletti dal popolo” cominciando a pensare di essere diventati “eletti del popolo”.

02/01/2012

                                                                                                                      giuseppe vella